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I MOTIVI PER I QUALI LA GUERRA DI ISRAELE NON E’ GIUSTA

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A seguito dell’inizio delle ostilità nella striscia di Gaza l’estate scorsa, Benjamin Netanyahu, nel tentativo di giustificare il suo operato, ha dichiarato che nessuna guerra è più giusta di questa, ma evidentemente non ha la percezione dei fondamenti che regolano questo concetto. La cosiddetta “guerra giusta” è applicabile per il mantenimento della pace e della sicurezza; ma, affinché ciò possa valere, parrebbe necessario rendere giusti anche i mezzi necessari a difenderla e mantenerla, fra questi anche un conflitto. Una tesi da non rigettare nella sua completezza: non è possibile rifiutare la teoria della guerra giusta se in questa è compresa quella di autodifesa.

L’operazione militare iniziata da Israele, tuttavia, tende al contrasto della violazione della libertà e dei diritti subita con i continui lanci di missili da Hamas, ed in questo frangente, l’Autorità è legittimata nell’intervenire al ristabilimento delle condizioni iniziali, deliberando ed attuando tutte le operazioni belliche necessarie, ma senza poi violare a sua volta i diritti del nemico, atto perpetrato più volte dall’esercito israeliano. Siccome una guerra implica la perdita di vite umane dell’avversario, contravvenendo al principio fondamentale dei diritti, la guerra giusta sarebbe un ossimoro, perciò le operazioni belliche dovrebbero essere ridotte alle installazioni militari, salvaguardando quelle civili, ed anche in questa occasione la “guerra giusta” di Netanyahu non è da considerarsi tale. La giustificazione alla guerra origina dalla necessità di doversi difendere da un aggressore, perciò operazioni militari volte alla protezione del popolo, dei beni statali e del territorio tenderebbero ad essere giuste per natura. L’autodifesa deve però limitarsi alla difesa della vita degli aggrediti, ma non sconfinare in operazioni punitive nei confronti del nemico.

Il concetto dei diritti umani diventa fondamentale per identificare la causa di una guerra, che potrà essere definita giusta; tutti gli esseri umani, indipendentemente dalle caratteristiche comunitarie, politiche e sociali non possono essere privati della sicurezza di non essere uccisi, di avere il cibo per sopravvivere, di godere dell’assistenza sanitaria, di poter disporre di un abito, in definitiva di non essere offeso nella sua dignità. L’aberrazione di questo contesto è nella necessità di tutelare lo Stato con l’ausilio di sistemi d’arma che siano efficienti e superiori ai probabili nemici; ne consegue la possibilità di esercitare azioni tese alla diminuzione della potenza dei confinanti che, in casi estremi, potrebbero innalzare il livello di scontro. La decisione di intervenire a Gaza, doveva essere eventualmente presa dall’ONU, poiché operazioni belliche punitive acquisiscono potere legale solo se autorizzate dall’intera comunità, la quale avrà inderogabilmente stabilito, amalgamando tutte le pluralità di concezioni sui diritti umani, la colpevolezza assoluta dello Stato da sanzionare e l’intervento militare dovrà comunque essere proporzionato alla minaccia, altrimenti la sua conduzione diverrà ingiusta. Questo vuol dire che all’offesa si deve rispondere in egual misura; di fatto l’invasione di terra ed i sistemi d’arma usati da Israele, sono contrari al concetto di guerra giusta.

Il limite della “guerra giusta” è rappresentato dai moderni sistemi d’arma convenzionali: gli attacchi chirurgici propri dell’innovazione tecnologica, benché possano essere ben concertati nella loro realizzazione, è praticamente impossibile che non inducano effetti collaterali in ordine di vittime civili, violando il loro principale diritto alla vita. Un esempio potrebbe essere quello del bombardamento della centrale elettrica di Gaza, ove personale tecnico non belligerante è in servizio 24 ore su 24, giacché figura come un attacco alla società e non ai militari. Su questa valutazione potrebbe valere il fondamento utilitaristico e non filosofico dei diritti, laddove un mero calcolo matematico farebbe pendere a favore della guerra giusta il numero dei diritti difesi da essa contro quelli violati, dove il fine essenziale è nel garantire la sopravvivenza del proprio popolo. Il rigore deontologico, però, non avalla tale calcolo, in quanto non si possono infrangere i diritti anche di un solo essere umano in favore di una moltitudine. Dunque è il tramonto del concetto di guerra giusta, che diverrebbe inaccettabile, ma torna la differenza tra violenza ed uso legittimo della forza, ossia l’equilibrio valoriale tra l’aggressione subita e la risposta. L’autodifesa, se soddisfa e controlla i diritti dell’invasore, rimane il caposaldo della guerra giusta: un singolo episodio di risposta inadeguata all’offesa sovvertirebbe il principio di autodifesa, avvalorando la tesi di Karl von Clausewitz che ritiene la guerra un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti.

Porre in essere attività belliche a favore dei basilari diritti umani universalmente riconosciuti, è un fine giusto, pertanto non si deve bandire in assoluto la forza, se questa tende al recupero della dignità, ossia se garantisce nel tempo il rispetto dell’uomo. L’uso della forza, strettamente equivalente all’offesa subita, è giustificabile nell’autodifesa a livello statale, ma il bilanciamento della forza usata nel conflitto in atto a Gaza, non è assolutamente tale, in quanto tende nettamente a favore degli invasori. Nessuna Nazione dovrà prevalere sull’altra avvalendosi dell’hegeliano “diritto assoluto” ed imponendo la propria visione dei diritti dell’uomo, della guerra e della pace.

Come esposto da Michael Walzer, è necessario incentrare l’attenzione sulla dicotomia tra guerra ed autodifesa. Alla prima non si può assegnare l’idea metafisica di estremo, laddove le operazioni belliche rappresenterebbero l’extrema ratio al fine di risolvere una controversia, perché risulta sempre possibile tentare di risolvere le dispute, soprattutto se sono a carattere regionale, con la diplomazia. L’autodifesa, nel caso israeliano, potrebbe rappresentare una forma di giustizia e ripristino della legge, dove l’aggredito combatte per recuperare il proprio status. La giustizia in tal caso richiede l’uso della forza, ma questa a sua volta diventa legittima solo qualora tutte le ragionevoli soluzioni abbiano perso le prospettive di successo. La legge, in base al paradigma realista, tace in tempo di guerra ed Israele non ha perseguito in tutta la sua completezza il viatico della diplomazia. Nell’autodifesa la “ragion di guerra” giustifica solo l’uccisione di coloro che a ragione sono suscettibili di essere uccisi, ossia i soldati, i quali a differenza dei civili, sono consapevoli del pericolo di perdere la vita. È esplicativo il concetto espresso da Albert Camus, in base al quale non si può uccidere se non si è pronti a morire. L’attacco che subisce un militare, non è diretto verso la persona fisica, bensì al suo ruolo di belligerante. La discriminazione fra i soldati che combattono una guerra giusta e quella ingiusta è determinata dalla giustizia e dal diritto; l’aggredito ha la necessità di difendersi per giustizia e per recuperare i propri diritti, ma non dovrà violare gli stessi parametri nei confronti dell’aggressore. Dunque sarà necessario limitare la risposta ai soli militari. Walzer specifica che il soldato ha la responsabilità di accettare i rischi personali piuttosto che uccidere un civile innocente.

In definitiva, qualsiasi risposta militare, per essere giusta, dovrà garantire l’indennità dei non combattenti, una proporzionalità tra l’aggressione subita ed il colpo che si andrà ad infliggere e non sfociare in episodi di vendetta o rivalsa. La difesa non può a sua volta tramutarsi in abuso.
Formalmente, come descritto dal giurista Carl Schmitt, la justa causa, non deve prescindere dallo justus hostis, ossia il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo, perciò dovrà essere affrontato come un individuo dai pari diritti, contro il quale è necessario limitare l’uso della forza. Afferma, inoltre, che nella dottrina dello jus in bello è contemplata la discriminazione degli obiettivi, in quanto ledere il commercio e l’economia dell’avversario coinvolge non solo l’industria della difesa, bensì i cittadini e non ultimo il Paese neutrale che intrattiene rapporti commerciali con il nemico.

Anche Norberto Bobbio ha affrontato la teoria della guerra giusta nel profilo della giurisprudenza, sottolineando che in tal caso è necessaria una distinzione fra un processo di cognizione ed uno di esecuzione. Nel secondo caso, la guerra è intesa come pena o come sanzione da comminare al nemico e l’atto di belligeranza è esaltato nella forza che dunque si pone al servizio del diritto. Nel processo di cognizione le operazioni militari trovano il loro limite, in quanto non adatte a discriminare il giusto dall’ingiusto, questo perché la guerra è giusta per entrambi i contendenti. Teoria perfettamente applicabile nel conflitto a Gaza. La concezione di guerra giusta è ricordata da Roland Bainton nel citare Platone: per poter essere considerata giusta, deve avere come obiettivo la rivendicazione della giustizia ed il ristabilimento della pace. È d’uopo, però, che l’applicazione della giustizia sia equa ed i diritti dei vinti non siano lesi. Quanto avviene a Gaza è in netta controtendenza rispetto tale paradigma.

In definitiva, la teoria della guerra giusta rimane di difficile se non impossibile applicazione ed il riallineamento della geopolitica mediorientale ha sottratto alla guerra giusta la limitazione giuridica trasformandola in un conflitto asimmetrico, esattamente quello che sta combattendo Netanyahu.

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