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Claudio Mutti, Il linguaggio segreto dell’Antelami, Iconografia di Cristina Gregolin, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2014, pp. 76, € 12,00

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La personalità e la vita di Benedetto Antelami, il nome del quale è legato al Battistero di Parma, sono avvolte nel mistero; si suppone che il costruttore facesse capo ad uno di quei centri dell’arte muratoria i cui aderenti vengono designati, negli editti di Rotari e di Liutprando, con la denominazione di Magistri Comacini. Iniziati nel 1196, i lavori per la costruzione del Battistero di Parma furono seguiti dall’Antelami fino al 1216 e proseguirono nel corso del sec. XIII; ma bisogna arrivare ai primi anni del XIV secolo per vedere l’opera letteralmente “coronata” con la balaustra superiore e le guglie di gusto gotico. La pianta della costruzione ha forma di ottagono lievemente irregolare, cosicché la cupola, affrescata con episodi tratti dalle Scritture e dalle storie dei santi, risulta divisa in sedici spicchi; ottagonale è pure il grande fonte battesimale situato all’interno dell’edificio.

A costituire l’oggetto di indagine di questo saggio non è soltanto il significato dell’ottagono e i riscontri che tale forma geometrica trova nell’architettura di altre aree culturali dell’Eurasia. L’attenzione dell’autore si rivolge alle raffigurazioni presenti sulle pareti esterne dell’edificio e, in particolare, alle settantanove formelle dello zooforo, entro le quali sono incorniciate le immagini di animali reali o immaginari ed altre figure simboliche.

Fra tutte queste raffigurazioni, più d’una costituisce la variante particolare di un tipo iconografico diffuso su tutto il continente eurasiatico.

Il caso più evidente è quello della scena rappresentata nella lunetta della porta meridionale. Fra i rami di un albero, un fanciullo estrae del miele da un’arnia e se lo porta alla bocca, mentre due animali rosicchiano le radici dell’albero stesso e un drago ignivomo attende minaccioso che il fanciullo cada giù a terra. L’autore del saggio fa notare che la scena antelamica si ispira ad una parabola che, giunta nell’Europa occidentale attraverso la mediazione musulmana, risale al Barlaam e Ioasaf bizantino; e che il principe indiano Ioasaf, al quale il maestro spirituale Barlaam racconta la parabola, altri non è che Siddharta, il futuro Buddha. Ma nemmeno la forma buddhista della parabola è quella originale, poiché, procedendo a ritroso, si arriva al Mahâbhârata: nell’undicesimo canto del poema, infatti, il saggio Vidura introduce l’apologo e ne fornisce la spiegazione, dicendo che il fanciullo tra i rami è l’uomo impigliato nei vincoli dell’esistenza corporea, il miele è il piacere della vita, i roditori delle radici sono gli affanni, mentre il drago è il “distruttore di tutti gli esseri esistenti, rapitore universale degli esseri dotati di corpo”, ossia Kâla, il Tempo.

Un’altra figura che trova puntuale riscontro nell’arte asiatica è quella della testa di leone con la criniera disposta a raggiera e con un anello appeso alla mascella inferiore. Questa figura, identica in due formelle collocate vicino alla porta meridionale, è la replica esatta del T’ao-t’ieh di epoca Han. Il T’ao-t’ieh cinese, spiega l’autore, appartiene alla stessa categoria di figure simboliche che alludono al Principio datore di vita e di morte, come ad esempio “il Kâla-mukha dell’arte indù, che ha per l’appunto sembianze leonine, e il Kâla-makara dell’arte giavanese, che combina i tratti del leone con quelli del makara, il mitico mostro acquatico indicato come veicolo di Varuna”.

Un altro tema presente sullo zooforo antelamico, quello di Gog e Magog, è “diffuso in tutte le aree culturali dell’Eurasia”, poiché “interessa sia il mondo musulmano, dalla Spagna alla Malesia, sia le aree cristiane dell’Egitto e dell’Etiopia”. Strettamente collegato a questo tema, sullo sfondo dello scenario apocalittico al quale allude l’ultima parte dello zooforo, è il tema del Restauratore finale, rappresentato, cento anni prima della predizione dantesca circa l’avvento del Veltro, dal simbolo del cane levriere. Secondo l’autore, “il ricorso a questo simbolo si spiega probabilmente col fatto che la parola ‘cane’ è foneticamente affine a khan (qa’an), titolo attribuito a sovrani centroasiatici di stirpe mongolica e turco-tatara”.

Adelaide Seminara

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