Durante i giorni della rivolta nelle principali piazze di Hong Kong, gran parte della stampa occidentale, colta quasi di sorpresa dal rapido susseguirsi degli eventi, ha immediatamente associato la situazione locale al ricordo dei disordini di Piazza Tienanmen nel 1989. Non si è trattato di una comparazione logica, giacché questa richiederebbe un’analisi politico-storica approfondita alla ricerca di possibili analogie. Piuttosto, è un riflesso pavloviano, un impulso del tutto emotivo, la perfetta immagine di un modo di vedere i fatti che, purtroppo, ha saturato il panorama dell’informazione occidentale e che torna a distorcere la realtà ogni qual volta ci si occupi di quanto avviene al di fuori dei propri confini nazionali.
Quello della politica estera è un settore giornalistico molto complesso, che richiede non soltanto il rigore cronachistico già imposto dalla deontologia professionale ma anche un’adeguata conoscenza storica e sociale dei contesti stranieri. L’assenza della capacità di osservare e raccontare il mondo nella sua molteplicità è ancor più grave e problematica al giorno d’oggi, ossia in un’epoca in cui la globalizzazione dell’economia e degli scambi tra i popoli sta ponendo le basi storiche per la ridefinizione degli equilibri internazionali in senso multipolare.
Seguendo la scia retorica delle numerose “rivoluzioni colorate” che hanno segnato il destino di tanti Paesi post-comunisti nel corso degli ultimi quindici anni, la rivolta di Hong Kong è stata ribattezzata col nome di “rivoluzione degli ombrelli”, in riferimento agli ombrelli effettivamente utilizzati dai manifestanti per evitare il contatto coi liquidi urticanti lanciati dalle forze dell’ordine allo scopo di disperdere la folla. Come da schema consolidato, alcuni governi occidentali hanno subito gettato benzina sul fuoco, interferendo per l’ennesima volta in una questione che rientra a pieno titolo negli affari interni della Repubblica Popolare Cinese e giudicando il governo di Leung Chun-ying senza conoscere in modo adeguato la situazione politica e sociale della Regione Amministrativa Speciale cinese.
Dopo oltre 150 anni di colonialismo britannico, Hong Kong è tornata alla madrepatria soltanto nel luglio del 1997 in virtù degli accordi raggiunti negli anni Ottanta tra Deng Xiaoping e Margaret Thatcher, che andarono a sanare una delle numerose ferite ancora aperte per la Cina, provocate durante il “secolo delle umiliazioni” (1839-1949). Il Trattato di Nanchino, imposto dai britannici all’Impero Qing per mettere fine alla prima guerra dell’oppio (1839-1842), è rimasto nella memoria dei cinesi come la prima, e forse la più grave, delle violazioni commesse ai propri danni. Più di Macao, restituita dal Portogallo due anni dopo, Hong Kong rappresenta così l’emblema di un piano di ricostruzione della nazione, fondato sui criteri della storia e della geopolitica.
Oggi Hong Kong non è più il vecchio porto sul Mar Cinese Meridionale bramato e conquistato dagli inglesi con la prepotenza e il ricatto, bensì uno dei più importanti centri finanziari dell’Asia e del mondo. L’autonomia di cui gode ha consentito alla regione di non risentire quasi per nulla del passaggio dalla sovranità britannica a quella cinese. La popolazione, in lieve crescita negli ultimi anni (7,23 milioni di abitanti nel 2014), vanta alcuni fra i più alti standard di vita di tutta l’Asia. Il reddito pro-capite, in continua crescita, ha raggiunto 37.900 dollari nel 2013. Il PIL, sebbene abbia rallentato i ritmi di alcuni anni fa, procede su tassi di crescita compresi tra il 2% e il 3% annuo. Quasi il 90% della forza lavoro della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong è impiegato nei servizi: un primato senz’altro importante, ma anche uno sbilanciamento settoriale che renderebbe impraticabile qualunque ipotesi indipendentista. Dopo gli anni d’oro della crescita sfrenata, inoltre, il tasso di crescita delle esportazioni è in calo, mentre nel primo semestre del 2014 quello delle importazioni è aumentato dell’1,5% rispetto all’anno precedente, passando così al 4%. Il principale partner commerciale di Hong Kong è ovviamente la Terraferma (la Cina continentale), prima destinazione del suo export (45,6% nel 2013) e prima fonte del suo import (47,8% nel 2013).
Il percorso di ricongiungimento definitivo, sintetizzato dal governo cinese nella formula “un Paese, due sistemi”, prevede un iter di 50 anni (ovvero, sino al 2047) durante i quali il governo locale continuerà a disporre di una forte autonomia in ambito economico, giuridico e amministrativo per controbilanciare la competenza esclusiva di Pechino nei settori della difesa e della politica estera. Sul piano legislativo, il diritto di Hong Kong resta strutturato sul sistema del common law anglosassone, al punto che diverse incrostazioni coloniali non sono state ancora completamente rimosse. Prima fra tutte, l’assenza di uno sviluppo democratico che ha segnato per molti decenni la vita politica di Hong Kong, quando il governatore locale veniva nominato direttamente da Londra, senza che la popolazione locale avesse alcun ruolo nel processo decisionale.
La richiesta ufficiale presentata dai manifestanti, implicitamente inquadrati dalle organizzazioni riconducibili ai partiti di opposizione locali, è quella di veder garantite maggiori rappresentatività politica e trasparenza nei meccanismi elettorali in vista del voto del 2017. Eppure, da quando Hong Kong è tornata sotto la sovranità cinese, i livelli di rappresentatività istituzionale sono notevolmente aumentati rispetto al passato. La Commissione Elettorale che nomina il capo del Governo della Regione Amministrativa Speciale è composta da 1.200 membri, mentre il Consiglio Legislativo viene eletto già a suffragio universale per quanto riguarda la metà dei suoi membri (35 su 70), ai quali vanno aggiunti altri 5 membri, eletti, sempre a suffragio universale, tra chi già riveste una carica di consigliere distrettuale. In totale, dunque, 40 membri su 70 (più della metà) del principale organo legislativo regionale vengono scelti direttamente dalla popolazione. Gli altri, sebbene non scelti sulla base del suffragio universale diretto, sono comunque espressione di rappresentanze del mondo delle professioni.
Presentare la protesta come uno scontro tra l’autoritarismo del governo centrale e la richiesta di democrazia dei manifestanti appare dunque una forzatura, nella misura in cui è stata proprio la nuova gestione post-coloniale cinese a gettare le fondamenta per la costruzione di una struttura democratica a Hong Kong. Richiedere miglioramenti, qual’ora essi siano praticabili, è legittimo ma non al di fuori della legalità o attraverso la violenza. Senza contare che le istanze portate in piazza dalle opposizioni hanno goduto dell’appoggio di una minoranza della popolazione locale, pari a circa 450-500.000 persone (tra cui anche molti minorenni) su un totale di oltre 7 milioni di abitanti.
L’attacco nei confronti di Leung Chun-ying, dunque, pare più illogico ogni giorno che passa da quel 28 settembre, quando gli scontri di piazza ebbero inizio, e somiglia sempre di più ad un attacco alla Cina nell’ennesima manifestazione di auto-sciovinismo che Pechino, analogamente a quanto avviene per Taiwan, torna periodicamente a denunciare. L’attrazione verso un modello politico e sociale di matrice occidentale, e l’odio verso sé stessi in quanto cinesi, in quanto parte inalienabile di una identità collettiva non percepita pienamente come propria, restano probabilmente i peggiori lasciti del passato coloniale. Su questo terreno culturale, ancorché su quello politico o su quello economico, Pechino e Hong Kong dovranno lavorare assieme per garantire alle giovani generazioni, quelle a cui sarà affidata la regione nel futuro, la possibilità di imparare a convivere nella comune consapevolezza di appartenere ad un unico popolo, figlio della civiltà più antica del mondo.